domenica 18 ottobre 2009

Sant’Arcangelo a Baiano il trionfo della decadenza

A Forcella il monastero chiuso e i fantasmi delle monache infelici
Antonella Cilento (scrittrice) - La piazzetta confusa nel traffico, fra le voci e gli improvvisi silenzi di Forcella, i panni stesi e le finestre abusive, è indistinguibile. È forse uno degli spazi storici di Napoli dove è più evidente che il riuso sta per distruggere ogni traccia del passato, perché la città è cresciuta sopra, intorno, tenendo d’assedio l’antico come sterpaglia che ingoi un’autostrada. Piazzetta Sant’Arcangelo a Baiano, il tristemente celebre monastero che porta lo stesso nome, e le strade vicine sono spesso agli onori della cronaca recente, ma quasi sempre per violenza e abbandono. L’elenco delle chiese chiuse, abbandonate da decenni, spogliate da ladri che come topi entrano e saccheggiano, pubblicato su queste pagine la scorsa settimana, include infatti anche l’ex convento che porta lo stesso nome. Una piccola facciata, ristretta dalle finestre che le si sono aperte dentro e addosso, coperta da abitazioni e quotidianità: questo è quello che rimane del convento di Sant’Arcangelo a Baiano e dell’annessa chiesa e hai voglia a leggere nelle guide che qui dentro dovrebbero esserci quadri di Andrea Fumo o che nel palazzo si ammirano dettagli, a Napoli rari e preziosi, dell’architettura catalana. La verità è che vedi solo un vecchio ingresso di chiesa che per puro caso sopravvive dentro un palazzo variegatamene popolato. Sì, è vero, secondo la leggenda qui di notte camminano fantasmi di suore infelici, ma a quanto pare le famiglie di Forcella, che a titolo più o meno abusivo si sono impadronite dell’edificio sacro, tutti questi fantasmi non li devono vedere. Saranno fantasmi quelli che si portano via arredi sacri, quadri, suppellettili, statue e croci dai palazzi e dalle chiese napoletane senza che alcuno se ne accorga? Qui si smonta letteralmente un patrimonio senza che anima viva se ne renda conto o intervenga: un pezzetto per ciascuno e presto non si potrà più dire, come per la vicina e, a detta di quanti l’hanno vista ormai decenni orsono, bellissima Sant’Agostino alla Zecca, che il sito antico sia mai esistito. Pure si sta parlando di aree assai vive della città in secoli non lontani, che rappresentano l’origine stessa della città. Oggi che scrivo casualmente da Pisa e sento pisani parlare della loro città aborrendo la vicina Firenze o fiorentini staticamente orgogliosi del loro patrimonio, faccio ancora più fatica a far capire loro che cosa sia Napoli e come si comporti con le sue ricchezze e la sua storia. Diciamo che, sinteticamente, la schifa. O la ignora. Così al vecchio cantante che ci ferma fuori a una trattoria nella poetica piazza delle Vettovaglie (dove ancor oggi come il nome indica si viene a mangiare e a bere) e ci racconta che Pisa era famosa già ai tempi della civiltà minoica, costruisce una sua affezionata e campanilistica epopea della città natale e getta discredito sui mali costumi capitalistici e puttanieri del finto Rinascimento fiorentino, cosa posso dire del nostro morente, agonizzante corpo barocco? Forse raccontare la storia vera o presunta del convento di Sant’Arcangelo, con i suoi fatti esoterici, le messe nere, le giovani monacate a forza impegnate in orge erotiche con giovani nobiluomini, gli omicidi per vendetta dei tempi di don Pedro da Toledo, ma anche la città pitagorica, nata intorno a una via in forma di ipsilon, la via Forcella, appunto, progettata dal filosofo greco, insomma il luogo delle magie, bianca e nera, dello yin e dello yang, i vicoli delle fatture e del malocchio. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, tanto che forse Sthendal, forse uno scrittore di calibro assai inferiore, dedicarono al posto una famosa Cronaca, alquanto scostumata, un feuilleton macabro e pruriginoso che passò ai primi dell’Ottocento come originale di secoli trascorsi ed era invece una palese invenzione romanzesca. Rieccoci dunque alla Napoli decadente e evocativa da cui tutti possono trarre spunto: ogni spunto è buono per non rimettere mano all’opera di restauro e recupero, per non interrogarsi su come mai le pietre toscane sono così ben museificate da risultare quasi stucchevoli e qui, al contrario, tutto è così abbandonato che sembra d’essere in una città in guerra. Ma veniamo alla storia: la chiesa dove oggi ci si parcheggia davanti e si butta la spazzatura fu voluta da Carlo I d’Angiò per festeggiare la sconfitta degli Svevi e la morte di Manfredi e Corradino. Secondo il Pontano la denominazione Baiano derivava da un’antica famiglia appartenente al Seggio di Montagna, ma la piazza era stata chiamata anche Scannacardilli, come un vicino vicolo, (altro toponimo affascinante) o Paparano o, altro bellissimo nome, Piazzaluce. Nel monastero, alimentato da acqua privata per concessione di re Guglielmo, aveva soggiornato anche la Fiammetta di Boccaccio ed il convento è anche citato nel Filocolo. La corruzione e la chiusura nel 1577 del convento pare fu dovuto a don Pedro da Toledo, invaghitosi di donna Vincenza Spinelli, venuta a Napoli con il marito e il cognato, sposo di una delle figlie del vicerè. Il marito di donna Vincenza si risentì dell’interesse del vicerè, un vero sciupafemmine secondo le fonti, e cercò di portare via da Napoli la moglie, ma morì di febbre tifoidea, proprio mentre don Pedro stava per farlo condannare e uccidere a sua volta. Donna Vincenza si trasferì a palazzo e finì col diventare la moglie del vicerè. Il cattivo esempio pubblico ebbe degli effetti sulle giovinette napoletane e iniziò quindi, racconta Sergio Delli, un periodo di grande libertinaggio specialmente fra le monache di Sant’Arcangelo a Baiano, tutte belle e nobilissime. Ci volle un santo, Andrea da Avellino, per chiudere il romitorio trasformato in casa chiusa e riportare la castità, o una sua parvenza, a Napoli. Fantasmi delle suore dai nomi nobiliari pare che ancora vaghino per le stanze oggi invase da letti, computer e parabole. Non sapranno più a che santo votarsi, visto che non è certo la lussuria il peggiore dei peccati in circolazione: incuria, malafede e ignoranza, insieme all’indifferenza e all’avidità, sono oggi più di moda e bon basterà certo un santo a bandirle da Napoli o dall’Italia.

Vandali in piazza Bovio spezzata la coda del leone

Vandali in piazza Bovio spezzata la coda del leone

MARISA LA PENNA Lo hanno rifatto. Dopo cinque anni dall’ultimo restauro, i vandali hanno nuovamente infierito su uno dei leoni di bronzo che decorano le scale d’ingresso del Palazzo della Borsa, in piazza Bovio, staccandone la coda. La denuncia arriva dal Comitato di Santa Maria in Portosalvo il cui presidente, Antonio Pariante, ha presentato un esposto contro ignoti ai carabinieri del Nucleo Patrimonio Artistico. «Quattro anni fa, dopo il precedente barbaro attacco dei teppisti, la coda di bronzo recisa venne ritrovata in un cassonetto della spazzatura, in una traversa della piazza. Pertanto si potè rimediare al danno facendo riattaccare la coda da restauratori di opere d’arte» spiega Pariante. L’aggressione vandalica, dunque, si ripete ai danni di uno dei bellissimi leoni di bronzo realizzati nel 1915 dallo scultore Luigi De Luca e dalla Fonderia Chiurazzi. Le belve raffigurano il «Genio che domina la forza». Anche la precedente «mutilazione» venne denunciata dal Comitato di Santa Maria in Portosalvo. «Grazie all’intervento della Camera di Commercio e del suo presidente, Gaetano Cola, la stessa Fonderia Storica Chiurazzi di Calvizzano provvide alla riparazione. Ma ora - conclude Pariante - della coda non sembra esserci più traccia e questa volta lo scempio rischia di rimanere tale per sempre». Per Pariante sarebbe necessario far «difendere» i nostri beni culturali dai militari. «Il novanta per cento dei monumenti cittadini sono rovinati dai graffiti. Napoli è la città con i monumenti più sporchi d’Italia» sottolinea il presidente del comitato civico. «Mi auspico che l’atto teppistico sia stato ripreso dalle telecamere della piazza in modo da identificare i responsabili» dichiara Alberto Patruno, presidente della II Municipalità. E commenta: «Anche sulla tutela dei beni dovrebbero essere attivare delle iniziative di videosorveglianza. A cominciare dai Decumani. Le telecamere incentivano la sicurezza. Esse rappresentano, infatti, un serio deterrente per i malintenzionati. Dove c’è il cartello che segnala la videosorveglianza non si commettono azioni di questo tipo. Questa è una cosa ormai certa». In quanto alla presenza di militari a tutela dei siti monumentali il presidente Patruno si dice contrario: «L’uso di militari è un servizio molto costoso. Ritengo che la videosorveglianza può egregiamente ottemperare a tale protezione». Per Gianfranco Wurzburger, assessore alla Vivibilità della II Municipalità «bisogna scuotere le coscienze dei napoletani perché ci sia un maggiore senso di appartenenza rispetto alla cultura e alla storia della città».